domenica 20 marzo 2011

Radiohead: The King Of Limbs (autoproduzione)


Come più o meno il cinquanta per cento della popolazione mondiale in fibrillazione per le ventiquattro ore d’anticipo con cui gli si è dato in pasto The King Of Limbs, come se già non fosse stata sufficiente la fibrillazione causata dalle Cinque Giornate d’Anticipo con cui veniva comunicato al mondo la diffusione di un nuovo disco di uno dei gruppi più importanti di tutta la sfera ontologica della musica pop contemporanea (ma non così fibrillante, dopotutto, che questa storia dell’essere sempre presente e coinvolto nel Qui & Ora fenomenico in cui si verificano le occorrenze pop-culturali, questa smania di essere sempre hyper-aggiornati e di avere sempre qualcosa da dire nell’immediatissimo futuro [diciamo tre minuti dopo] successivo alla comparsa di una News Bomba nel feed reader – queste fisime del giornalismo musicale 2.0 mi hanno già stancato, per farla semplice) – come un casino di altre persone sparse in giro per il mondo, dicevo, ho dato il primo ascolto a The King Of Limbs mentre ero ancora a lavoro. Cosa comporta un primo ascolto siffatto: distrazione, innanzitutto, mancata immersione totale, altri cazzi a cui prestare attenzione, idioti che fanno squillare il telefono del mio ufficio evidentemente ignari del fatto che i Radiohead hanno prima annunciato l’uscita di un disco con cinque giorni d’anticipo e poi hanno anticipato questa uscita di un giorno, mettendo in discussione un ordine mondiale già compromesso da Sanremo 2011. Ho fatto un primo ascolto molto superficiale di tutto The King Of Limbs, insomma. Nel frattempo, “Radiohead” diventava trending topic su Twitter, e a migliaia – pensando di svelare un arcano che possedevano solo loro, e ognuno per sé – pubblicavano sulle proprie bacheche facebook il video di Lotus Flower. Quindi mi imbattevo nei primi commenti a caldo dell’infosfera tutta, fra recensioni istantanee e impressioni twittate da ogni dove. Mi soffermavo con piacere sulle stroncature, mi facevano ridere certi commenti del tipo “non sono nemmeno canzoni”, come se la “canzone” fosse l’Unità Minima, come se Pyramid Song (su Amnesiac, primi Anni Zero cosiddetti) fosse una canzone, come se non fosse successo nulla negli ultimi quarant’anni. Come se i Radiohead dovessero ancora fare delle canzoni, andare a Sanremo, venire eliminati la prima sera ma portare comunque a casa il premio della critica e un CD di Apicella con dentro delle banconote da cinquecento euro.
Ultimavo l’ascolto e mi restava solo un’impressione – un’impressione di luce.
Il giorno dopo mi metto in strada e accendo il lettore. Vado nella luce, sotto un sole particolarmente bello e netto. Ascolto con attenzione, stavolta, non ho rotture di palle nelle immediate vicinanze, penso che un ascolto approfondito sia qualcosa di molto vicino a questo. E confermo l’idea di luce di tutto il disco: c’è una luminosità diffusa in ogni pezzo, e proviene da qualcosa di apparentemente ignoto, è la risultanza di arrangiamenti, armonie archetipiche per i Radiohead (quella roba che potrebbe essere una quinta diminuita o una settima dominante con scappellamento sul bemolle, il territorio di confine fra pop rock avant e jazz e tutto quello che vi pare), reverberi a strascico sulla voce di Thom Yorke, ritmi quadrati ma non per questo immediati né tanto meno semplici. E di fatto non si tratta di canzoni, o meglio: è un formato imprendibile, sono non-canzoni fatte di non-strofe e non-ritornelli, prive di momenti solisti in senso rocker-purista. Peròsono canzoni, e ammesso che si possa aprire una discussione interiore, senza sentirsi stupidi, sull’essere o meno canzoni di certi pezzi se ne concluderà che interrogarsi su robe del genere è del tutto inutile. C’è una qualità ambientale in tutto il disco che non riesco a decifrare con esattezza. Sono continue le sovrapposizioni delle varie chitarre con i synth e le sezioni ritmiche. A questo proposito: l’elettronica è usata con parsimonia e in maniera molto organica rispetto a tutto il tessuto sonoro, è una componente basilare di molte composizioni, e pur non potendo affatto parlare di elettroacustica dobbiamo ad ogni buon conto notare che l’elettronica viene suonata come se fosse un altro strumento acustico, ce n’è di più che su In Rainbows ma non è in bella vista. Un’altra componente che esce con più forza rispetto alle incarnazioni Radiohead finora conosciute è sicuramente un’attitudine più totale verso costruzioni poliritmiche che si riflettono in umori percussivi a un passo da tropicalismi e mariachismi vari: se vi sembra che la sto sparando grossa ascoltatevi subito Little By Little, e poi ne riparliamo. E c’è Feral, l’episodio più trattato, che sembra una cover dei Mahjongg, o il pezzo perfetto per essere coverizzato dai Mahjongg: fate un po’ voi.
Sto cercando di analizzare l’ultimo disco dei Radiohead, ma mi rendo conto che è solo eccesso di zelo. Ribadisco una conclusione tutta personale che spero possiate condividere: per gruppi come i Radiohead non valgono più le coordinate di Bello/Brutto, Buono/Non Buono con cui potremmo sperare di comprendere altre realtà. Il loro percorso nella musica, la loro strada finora segnata all’interno della massa di significati del rock (usiamo ancora questo termine per semplificare, e parecchio) li ha portati all’elaborazione di un linguaggio totalmente autentico, personalissimo, riconoscibile, originale. Un canone. Giunti al loro n-esimo disco, il riconoscimento di questa originalità – da parte mia, e da parte vostra se siete d’accordo con me – il riconoscimento epistemico di questa originalità, dicevo, supera e rende inutilizzabile la valutazione estetica della Cosa. Cioè: non vale a un bel niente dire se questo disco sia bello o brutto. È una questione logica, alla fin fine. The King Of Limbs è un disco dei Radiohead: l’ultimo disco dei Radiohead è un disco dei Radiohead, e se vi sembra che stia delirando probabilmente avete ragione. Ma non venite a dirmi che avete bisogno di una sottospecie di recensione per capire se un disco vi piace o meno. Ci sono momenti davvero validi (la maggior parte) ed episodi più sterili (pochi, forse solo Give Up The Ghost), questo posso dirlo. E c’è tanta luce. Ma lo si capirà meglio fra alcuni anni, in quanto ad essere complessivamente buono o non buono, alla faccia del 2.0. Provate a riascoltare Kid A adesso, per dire.
E insomma: già l’idea di sfuggire all’immediatezza di questi tempi turbati dal turboconsumo, e la capacità intrinseca di prorogare un giudizio che invece si vorrebbe bell’e pronto per stare sempre sul pezzo, già questo la dice lunga sulla qualità della musica. Poi si potrebbe anche concordare con Everett True quando dice che i Radiohead non hanno più idee, ma non capisco la necessità di avere nuove idee se quelle vecchie sono ancora complesse e in continua elaborazione. Questo non è più rock, i Radiohead non sono più rock da Kid A in avanti. È un problema? NO. Mettetevelo in testa.
Tutto qui.

Giampiero Cordisco

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